RIAPPROPRIARSI

Riappropriarsi della propria città per riappropriarsi della propria vita; si comincia da lì.
Stamani alla Conad del Campo d’aviazione è stato un bagno nella mì Viareggio che così spesso mi pare lontana. Più invecchio e più attacco discorso con tutti; me n’ero già accorta ieri sera, in fila per il polpo alle cucine della Darsena, quando ho chiacchierato con chi mi capitava sotto mano. Ma è facile attaccà bottone al Carnevaldarsena: o sei felice o stai casa.

Mi sono riappropriata del sole, del mare, della mì bicicletta, del cielo la domenica mattina presto quando porto a giro Piermarialucky.
È un riapproprio perfettibile, come si dice ora “c’è da lavorarci”. Ci saranno giornate ancora piene di discussioni, di sensi di colpa, ma il fatto è che “qui” canto dalla mattina alla sera e ieri, addirittura, ho fischiato come non facevo da secoli.
Mi sono perfino scordata quanti anni ho.

(tutti questi discorsi, comunque veri, servono per testare le nuove funzioni di questo blog)

Riapertura: oggi, ventun febbraio dumilaventi, Primavera a mare

Il mio blog defunse anni addietro per un qualcosa come “cambio di piattaforma”.
Mai è stato rimpiazzato e ora giace nel mio “andreottiano archivio” sotto forma di file word.
Ogni tanto lo riapro e mi balza agli occhi la sostanziale differenza tra com’ero e come sono; è una così grande differenza che, alla fine, mi fa pensare che non ci sia, che tutto è uguale e che io sono la stessa persona che così scriveva anni fa.
Credo che le nuove frequentazioni abbiano portano una specie di censura nella vita mia, certo è scomparsa quella frenetica libertà con cui esponevo le mie cose, certo tutto è più ponderato (“figuriamoci se non lo fosse”, penserà qualcuno). E me ne dispiaccio.
Lunga premessa per dire che prima mi ero simpatica e ora non più di tanto.
Questo panerigico, che non cancellerò, è nato spontaneo perché sono appena entrata nelle segrete stanze di “Va, Tuosk!” per vedere cosa avessi scritto il 21 febbraio del 2008.
Giorno in cui morì Beppe.
Nulla; o quasi: solo un “Ciao, pappà!”.
Molto scrissi prima, anzi moltissimo, nei giorni in cui imperversava il Carnevale e io ero una felice ruota di quell’ingranaggio. Furono giorni straordinari, compressi di dolore e felicità assurde. Sono contenta di averne scritto con tale dovizia: oltre a Beppe anche parecchie persone allora citate, e tanto amate, oggi non ci sono più.
Torno al mì Beppe, a quella mattina del 21 febbraio 2008. Aspettavamo la sua morte, quasi come si aspetta una nascita; tutto sarebbe cambiato pur restando, sostanzialmente, tutto uguale.
Gli feci la barba, quella mattina, e a metà disse che non voleva che gli rasassi l’altra metà del viso. Rideva come un matto, gli occhi piccini e lucidi di ilarità. Ci disse, a me e alla Marirò, che a mezzogiorno, “con lo scoppio del cannone” (roba da viareggini), se ne sarebbe andato e intanto avrebbe gradito qualcosa di “bono”. Gli feci la crema e gliela portai in un bicchierino. La divorò compiaciuto.
Lo lasciai in camera e gli dissi che ero al piano di sotto, proprio nella stanza sotto la sua, a stirare. Che mi chiamasse se avesse avuto bisogno di qualcosa.
Mancavano pochi minuti a mezzogiorno quando sentii del rumore provenire dal piano di sopra. Corsi in camera sua, trovai il letto deserto e capii che era in bagno. Chiuso a chiave.
Bussai e dissi, decisa e severa (ormai ero la mamma di mio padre), che mi aprisse. Lui, con la sua bella e sonora voce baritonale, come non aveva più da tempo, mi disse:
“NON MI ROMPERE I COGLIONI!”.
Riuscii a spaccare il vetro della porta. Lo trovai seduto sul cesso, morto. Pareva il bimbetto dispettoso che, così raccontavano, era stato.
Chiamai l’ambulanza, mia sorella e poi scesi in strada e andai dai miei vicini, quella meravigliosa famiglia che si era creata in via Nicola Pisano, per trovare voci amiche.
Era mezzogiorno passato da poco.
Ancora oggi penso a quel giorno come a un qualcosa di straordinario; decisamente una morte è un qualcosa di talmente peso e incredibile (nella sua assoluta e coerente semplicità) da diventare un evento “miracoloso”; mi ripeto: come una nascita.
E ripenso a che uomo fantastico sia stato Beppe: uno che muore dicendo alla figlia “NON MI ROMPERE I COGLIONI!” lo deve essere. Per forza.

Commemoro sempre questa giornata, così come le altre fatidiche ricorrenze famigliari, con un qualcosa di gioioso; per Beppe si ricorre al Negroni. Stasera andrò, dopo anni, “in Darsena”: è la serata di apertura ed era tradizione celebrare con il risotto seppie e bieta. Riprendiamo la tradizione; anzi: riapriamo i tagli di tradizione!
E il risotto con il Negroni sarà ottimo.

(quel che resta di me)87370954_4218904428135326_7425999159158636544_n

-foto dalla pagina Fbook di Riccardo Mazzoni-

Gli orecchini (stagioni estive)

Si lavora alacremente e la rena, ora chiara chiara, viene pettinata con un rastrellone a denti larghi, ricorda i pettinoni detti “afro” con cui mi sdipanavo i riccioli una trentina di anni fa.
Le tavole di legno della passerella vengono ridipinte e trattate con una vernice lucida che le rende color mogano, striato da venature più scure. Il contrasto con la rena chiara è bellissimo e mi verrebbe voglia di camminare scalza sulla vernice fresca per vedere la mia orma sporca di sabbia sulla vernice lucida; quasi carta vetrata fragile e sottile, rilucente al sole.
Il mare, laggiù, in fondo alla spiaggia, oggi era color verde cupo; una tavola liscia come l’olio. Lontano la Gorgona, più cupa del verde del mare.
Si lavora alacremente e questi giorni così attivi (martelli, pialle, rastrelli, pennelli, chiodi, operai, vernici, catrame) sono sicuramente per me più lievi dei giorni futuri quando tutto sarà pettinato, lustrato, apparecchiato, liscio, vetrinato.

Una volta adoravo l’estate. Ero sempre nera di sole, con i calcagni che parevano carta vetrata, più spessa di quella che lascerei ora come orma sulla passerella ridipinta. Le giornate erano lunghissime di ore eterne oziose al sole, umide di sudore, fragranti di odori e di umori.
Una volta, ma nemmeno poi moltissimi anni fa.
Mi bastavano un paio di calzoni leggeri, un paio di magliette, un pareo e gli zoccoli. I miei cenci colorati erano sufficienti a sistemarmi per le eventuali occasioni. E poi c’erano gli orecchini; tanti, tantissimi orecchini raccolti da sempre. Orecchini baracconi, colorati, lunghi, eccentrici, appariscenti. I fori alle orecchie furono la prima delle mie libertà desiderate e ottenute.
Beppe me ne portava sempre un paio o due dai suoi viaggi e quando li indossavo, sempre felice e riconoscente, li toccava con le dita leggere (aveva mani bellissime) e mi raccontava dove e come e con chi e quando li aveva comperati.
Racconti che ascoltavo spesso distratta, la voce profonda che come un mantra accompagnava il mio sfaccendare in quella casa grande e ariosa, così fresca in estate da parere una grotta ombrosa.
Scalza, con il pareo e gli orecchini, trascorrevo l’estate. Libera, il sole e i ricci scompigliati sulla testa.
Poi ho cominciato a legare i ricci e poi a tagliarli, sempre meno sole poi più nulla, i parei scoloriti nell’armadio. Il più bello l’anno scorso è diventato una tendina contro il sole, qui, nella nuova casina.E ho messo orecchini sempre più piccoli ché sulla pelle pallida quelli baracconi parevano senza senso.

Il figlio, tornando da un viaggio, mi ha portato un paio di orecchini, senza che chiedessi nulla. Non enormi, orientaleggianti. Amati.

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Altre due paia di orecchini sono arrivate durante lo scorso anno: eccentrici e ricercati pur se con animo hippy.
Mi sto facendo ricrescere i capelli.
Domani guarderò dove sono i parei.

 

I sottaceti (le donne, nostalgia, malinconia, bambini)

Si allontanano sempre più le vecchie consuetudini ma quello che mi appariva distante –“sono straniera a me stessa”, dicevo- sembra sempre più consueto. A volte famigliare.

Entro nel Mercato del Dazio, già con gli occhi volutamente sgranati, ché tanto bello pare da fuori da non potermi non stupire dentro, pronta a Oh! di meraviglia.
So che ci saranno delle anatre, dei salami, dello strutto, i pate, la frutta e la verdura; mi aspetto l’odore mai dimenticato da mercato della frutta e pregusto le quasi sicure lacrime di commozione e di nostalgia che mi bagneranno il ciglio; certa dell’effetto scenografico quasi mi anticipo, sporgendo le labbra in un broncio da bambina vecchia.
Il Capogita ha una sporta al braccio, è pronto per la spesa quotidiana e sicuro attraversa il sottoportico, la camminata breve e veloce, avvezzo a questa lingua strana in cui pare non esistano vocali. Sopra di noi solenni e imperiose le arcate in ferro.
Entro nel Mercato del Dazio e mi assale, come un’onda di piena, il profumo dei sottaceti.
Donne spartane con giacconi fuori moda, le borse di plastica da cui spuntano ravanelli grossi come arance, gli occhi languidi e malinconici; ragazze in minigonna, tacchi altissimi, occhi languidi e malinconici pesantemente truccati, camminano sottobraccio sculettando la loro gioventù e bevendo caffè da bicchieroni in cartone così americani.
Il profumo dei sottaceti, acuto, dolce e assieme salato come quello del sesso, pervade questo universo femminile malinconico e languido che mi passa davanti apparentemente senza fretta.
“Ti piace?”, dice il Capogita (la C scolpita, netta, da milanese). “…mi piace…”, dico (la C scivolata, da toscana).
Lo dico e mi ascolto dirlo e penso che mi piace davvero e che non servono stupefatti Oh! e che se sto per piangere non è per il ricordo del mercato della frutta (un mai rimosso lutto di appartenenza) ma per l’odore dei sottaceti e la visione sfumata di me, bambina, che seduta per terra dietro alla poltrona su cui Beppe leggeva, leggevo a mia volta libri in cui si parlava di sottaceti, di bambini scalzi, di salumi piccanti, di case dalle doppie finestre, di mamme stanche con gli occhi malinconici, di un grande fiume, di inverni gelidi e primavere fiorite e di fioriti abiti ricamati.
“Mi sono diventati realtà ricordi di posti sempre immaginati e mai visti”, dico al Capogita, le mie parole sono un borbottio confuso.
Lui annuisce, gli occhi severi e apparentemente noncuranti, scivolano sul mio viso. Sceglie dei sottaceti (cipolle, pomodori, cetrioli, cavolfiore e aglio, misti, per favore) parlando parole sconosciute con la donna dietro il banco (un fazzoletto in testa, occhi chiari insolitamente brillanti, capelli bianchi, mani rugose).
Usciamo. Fuori l’aria è dolce, molle e languida, si intuisce il fiume, enorme, molle, languido.
Mangio un sottaceto, mi soffoco con l’aceto e rido ingoiando lacrime che non sono sgorgate. La primavera è fiorita.

 

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Il sole in faccia

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Il sole in faccia, il cielo blu sulla testa, gli occhiali rosa sugli occhi.
(quando sarò morta voglio questa foto sulla mia tomba!)
Sogghigno, ridacchio, canticchio.

La valigia (ancora)

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Un anno fa, dopo una doccia nella casina di passaggio, quella del Brentino.
Avevo gli occhi sbaffati di mascara come una tragica diva del cinema muto, i capelli bagnati come un pulcino affogato, le rughe agli occhi ma ridevo al mio autoscatto.
L’anno appena trascorso, tra il marzo 2013 e questo marzo, è stato spesso stancante, spesso angoscioso, spesso disperato, sempre straniante, sempre -comunque- vivo, proprio come questa foto.
Potavo rami secchi (come si conviene in vista di una buona primavera), buttavo via roba vecchia, ammazzavo cose e persone vecchie –uno spicinìo!, avrebbe detto la mì mamma- lasciandomi alle spalle campi pieni di cadaveri.
Ma, come in una sorta di buffa legge del compenso, tra il marzo del tredici e questo, quello del quattordici, mi sono affacciata su un mondo nuovo, vivendo vite nuove e vedendo così tanti posti nuovi come non ne avevo visti negli ultimi vent’anni.

Bilancio positivo? Sì. E all’alba della fine dello scorso marzo proclamai che comunque vada sarà un trionfo. E finora pare lo sia.

Intanto ascolto Jenůfa, il letto pieno di abiti da piegare e infilare in una nuova vecchia valigina.
Domani si parte.

 

Anestetici ungarettismi pomeridiani

Mi si sta anestetizzando il cuore; è un casino.
Non rido: sorrido.
Non piango: frignicchio.
Però sono serena e anche gli sbalanchi di paura si sono rarefatti. Mi viene, quindi, spontaneo chiedermi se sia la maturità che si affaccia nella mia incombente vecchiaia o se sia l’adeguamento alla vita attuale.
Però (c’è sempre un però in più al primo però) ancora penso -spesso- che

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Pisolino e azzuffatina dannunziani

Dormicchio, il sole filtra dalle tende, il letto è tiepido e il cane Pier ronfa sommesso sotto il letto. Dalla cucina arriva il rumore della lavastoviglie, sommesso pure quello.
Dormicchio nel quieto primo pomeriggio e pensicchio a bonaccia-calura-perovunquesilenzio, manca ancora tempo perché l’estate si maturi sul mio capo come un pomo, quello che promesso mi sia e che suggere io debba eccetera eccetera. Dormicchio e il pensiero dell’estate mi pare ora remoto, ora incombente; ma nel letto si sta bene e non me ne importa più di tanto.
Dormicchio, con il cane che sospira sotto il letto, quando il silenzio è rotto da un sonoro “vaffanculo!” che viene dagli orti.
Lei dice a lui che vaffanculo che sei uno stronzo che vuoi farla finita? che sei un fannullone e un buono a nulla.
Lei ha la voce giovane e puntuta, l’ira la fa salire di tono e mi aspetto che faccia dei sovracuti. Continua a salire (pezzodimerda la colpa è di tu’ madre che un t’ha saputo educà) e io penso all’aria della Regina della Notte. Sorrido e pur dormicchiando aguzzo le orecchie.
Lui risponde con un borbottio da basso profondo e non intendo le parole. Lei continua a dire vaffanculo e stronzo e anche pezzodimerda. Lui ancora borbotta, basso fondo fondo. Un duetto tra due vocalità estreme.
Sbatte una porta.
Ticchettio di tacchi nella strada.
Silenzio.
Il cane Pier non ha fatto una piega e ronfa sereno. Il letto è caldo.
Fuori dalle tende (Ikea, Lill, euro 3,50 la coppia, tulle bianco, grande figura, lavabili in lavatrice con azione meccanica ridotta) il sole filtra radioso.
Bonaccia, calura, per ovunque silenzio.
Torno a dormicchiare … probabilmente dormono anche i Monti Pisani, coperti da inerti
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chi se ne frega

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I piatti me li regalò la mì mamma quando mi sposai, le posate erano della mì mamma. I tovaglioli erano di Beppe, del corredo, ma la tovaglia è mia, la comperai da un ragazzo rumeno sul lungomare di Lerici tanti anni fa.
I bicchieri sono miei, quelli da acqua sono dozzinali ma quelli da vino sono leggerissimi al punto che ti preoccupi di non stringerli tra le mani.
Non sono approdate le torme di amici come nei compleanni trascorsi, siamo bastati noi sei, compreso il cane Pier, a fare famiglia.
Tutta la giornata, prima della cena, si era trascinata tra inopinate allegrie esagerate e cadute nell’abisso di un passato che tanto un torna; spesso mi pareva di essere mio padre e mi vedevo come attraverso un curioso paio di occhi accessori, non miei: imbronciata e con una piega incauta, tra lo stizzito e il menefreghista, agli angoli della bocca.
Ho cucinato come mai avevo cucinato nella piccola cucina della casina nuova, una cucina bianca e funzionale, come decretato da mia sorella. Tutto sottomano. Tutto a portata di occhi e di orecchie.
E infatti dalla cucina posso ascoltare senza problema alcuno la musica che viene dal salotto; ieri la scelta che ha accompagnato il mio fine pomeriggio ai fornelli non è stata la mia musica pallosa ma la mia musica di quando ero paggio del duca di Norfolk.
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Così il duo S&G, che mi ha accompagnata dai diciotto ai quasi cinquanta, è stato spolverato e riportato alla luce.
Mi hanno fatto tenerezza, con quei visi da ragazzi, e io stessa, allora, mi sono fatta tenerezza e mi sono compatita per come ero invecchiata, per come fosse tutto diverso, per come più nulla fosse come prima. Sono stata incline al pianto e solo il ritrovamento di una tavolettina di cioccolato bianco mi ha fatto pensare, pur se vagamente e con occhio critico, che la vita, tutto sommato, non è poi quella gran cagata.
Ho somatizzato la tristezza ingozzandomi di cioccolato, leggendo i messaggi augurali (apoteosi di laudi e laudi!) e pensando, con cattiveria non gratuita, alla poca garbatezza di alcuni amici (?) da cui ero stata omaggiata con un asettico sms che decretava uno sterile “auguri da tutti”.
Ganzo! Figo!
Rifletto: forse avranno fatto così  perché ho chiuso con gli inviti a cena? Forse perché sono invecchiati (come me, come me) e tutto è diverso e più nulla è come prima?
Il cane Pier mi ha sorriso mentre riflettevo sull’imprevedibilità dei rapporti umani e sulle poche cose che contano nella vita. Il suo sorriso bianco bianco mi ha fatto ridere. Il cane Pier ha starnutito e mi ha guardata; io gli ho fatto una pernacchia, lui ha riso e assieme, vicini vicini, abbiamo continuato a cucinare.

La serata è stata perfetta!

San Beppe in via Sanbeppe (il primo)

Diciannove marzo, sarebbe stato l’anniversario di nozze dei miei genitori, sarebbe stato l’onomastico di Beppe e quello degli zii: tre Beppe per tre sorelle. Sarebbe stata la festosa vigilia del mio compleanno.
Per San Beppe c’era sempre stato il sole, un’ariata di primavera che levava di sentimento, le finestre aperte con le tende che si muovevano, piano, le violette nell’orto e sempre il sentore che fosse comunque una grande festa.
Una lunga tavola veniva apparecchiata nell’orto, nell’orto della zia Lila e della zia Lina; una tavola lunga lunga con varie tovaglie bianche che si sovrapponevano, senza mai combaciare perfettamente. Bianchi diversi tra loro, quali quasi panna, altri quasi corda e ancora alcuni in cui affioravano sbiaditi aloni color vinonero, ricordi di passate feste, forse addirittura di qualche Natale. Assieme a quelle vecchie macchie (le gore le chiamava la zia Lina, lei sapeva tutto) affioravano ricordi e il rammendo sulla tovaglia-di-fiandra-con-le-cifre faceva raccontare alla zia Demy (la tovaglia era sua) di quando venne tagliata mentre si divideva un panettone. Quegli aloni mi piacevano, contrastavano con il profumo di pulito delle tovaglie e pensavo a come fosse bello e poetico, forse anche romantico, quel senso di vissuto che mi dava così tanta sicurezza.
Nulla pareva dovesse accadere nell’orto delle zie, sotto la pergola di uva fragola che appena appena metteva piccole gemme pelose, chiare e seriche.

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Questo è il primo San Beppe che passiamo lontano da casa, lontano dal rione in cui sono nata e cresciuta.
La nostra casina di ora ci sorride, fuori ci sono due pini alti e schietti e sullo sfondo vedo le Apuane.
Domani sarà il mio compleanno, credo che sarà bello, credo che sarà sereno, credo che sarò in pace e forse tranquilla.

Credo.