Riapertura: oggi, ventun febbraio dumilaventi, Primavera a mare

Il mio blog defunse anni addietro per un qualcosa come “cambio di piattaforma”.
Mai è stato rimpiazzato e ora giace nel mio “andreottiano archivio” sotto forma di file word.
Ogni tanto lo riapro e mi balza agli occhi la sostanziale differenza tra com’ero e come sono; è una così grande differenza che, alla fine, mi fa pensare che non ci sia, che tutto è uguale e che io sono la stessa persona che così scriveva anni fa.
Credo che le nuove frequentazioni abbiano portano una specie di censura nella vita mia, certo è scomparsa quella frenetica libertà con cui esponevo le mie cose, certo tutto è più ponderato (“figuriamoci se non lo fosse”, penserà qualcuno). E me ne dispiaccio.
Lunga premessa per dire che prima mi ero simpatica e ora non più di tanto.
Questo panerigico, che non cancellerò, è nato spontaneo perché sono appena entrata nelle segrete stanze di “Va, Tuosk!” per vedere cosa avessi scritto il 21 febbraio del 2008.
Giorno in cui morì Beppe.
Nulla; o quasi: solo un “Ciao, pappà!”.
Molto scrissi prima, anzi moltissimo, nei giorni in cui imperversava il Carnevale e io ero una felice ruota di quell’ingranaggio. Furono giorni straordinari, compressi di dolore e felicità assurde. Sono contenta di averne scritto con tale dovizia: oltre a Beppe anche parecchie persone allora citate, e tanto amate, oggi non ci sono più.
Torno al mì Beppe, a quella mattina del 21 febbraio 2008. Aspettavamo la sua morte, quasi come si aspetta una nascita; tutto sarebbe cambiato pur restando, sostanzialmente, tutto uguale.
Gli feci la barba, quella mattina, e a metà disse che non voleva che gli rasassi l’altra metà del viso. Rideva come un matto, gli occhi piccini e lucidi di ilarità. Ci disse, a me e alla Marirò, che a mezzogiorno, “con lo scoppio del cannone” (roba da viareggini), se ne sarebbe andato e intanto avrebbe gradito qualcosa di “bono”. Gli feci la crema e gliela portai in un bicchierino. La divorò compiaciuto.
Lo lasciai in camera e gli dissi che ero al piano di sotto, proprio nella stanza sotto la sua, a stirare. Che mi chiamasse se avesse avuto bisogno di qualcosa.
Mancavano pochi minuti a mezzogiorno quando sentii del rumore provenire dal piano di sopra. Corsi in camera sua, trovai il letto deserto e capii che era in bagno. Chiuso a chiave.
Bussai e dissi, decisa e severa (ormai ero la mamma di mio padre), che mi aprisse. Lui, con la sua bella e sonora voce baritonale, come non aveva più da tempo, mi disse:
“NON MI ROMPERE I COGLIONI!”.
Riuscii a spaccare il vetro della porta. Lo trovai seduto sul cesso, morto. Pareva il bimbetto dispettoso che, così raccontavano, era stato.
Chiamai l’ambulanza, mia sorella e poi scesi in strada e andai dai miei vicini, quella meravigliosa famiglia che si era creata in via Nicola Pisano, per trovare voci amiche.
Era mezzogiorno passato da poco.
Ancora oggi penso a quel giorno come a un qualcosa di straordinario; decisamente una morte è un qualcosa di talmente peso e incredibile (nella sua assoluta e coerente semplicità) da diventare un evento “miracoloso”; mi ripeto: come una nascita.
E ripenso a che uomo fantastico sia stato Beppe: uno che muore dicendo alla figlia “NON MI ROMPERE I COGLIONI!” lo deve essere. Per forza.

Commemoro sempre questa giornata, così come le altre fatidiche ricorrenze famigliari, con un qualcosa di gioioso; per Beppe si ricorre al Negroni. Stasera andrò, dopo anni, “in Darsena”: è la serata di apertura ed era tradizione celebrare con il risotto seppie e bieta. Riprendiamo la tradizione; anzi: riapriamo i tagli di tradizione!
E il risotto con il Negroni sarà ottimo.

(quel che resta di me)87370954_4218904428135326_7425999159158636544_n

-foto dalla pagina Fbook di Riccardo Mazzoni-

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